“Una società senza simboli non può evitare di cadere al livello delle società infraumane, poiché la funzione simbolica e un modo di stabilire una relazione tra il sensibile ed il sovrasensibile” [Rene Alleau, La scienza dei simboli, Sansoni Editori, Firenze 1983]
La condivisione dei valori nazionali in Italia oggi non è più, come all'indomani dell'Unità, nella coscienza del popolo. Che cosa resta immutato dell’italianità sotto l’impatto dell’integrazione europea, dell’arrivo di milioni di immigrati e dei processi di globalizzazione dell’economia?. Ci sono dei valori e dei simboli della nostra identità nazionale che permangono nonostante le influenze esterne così
numerose e invasive? Lo storico Emilio Gentile, in un libro dedicato all’italianità, sostiene che alla fine del 2009, oltre l’80 per cento degli italiani ha giudicato l’Unità una cosa positiva, aggiungendo che questi dati appaiono confermati dai risultati di un sondaggio sui motivi per i quali la maggioranza degli italiani si è detta orgogliosa di essere italiana: al primo posto figurano le bellezze naturali, il patrimonio artistico e culturale, la cucina e i prodotti alimentari; seguono poi l’inno di Mameli, la bandiera nazionale, gli eventi che hanno dato origine all’Unità d’Italia e alla repubblica democratica, cioè il Risorgimento e la Resistenza, e infine la Costituzione. […].
Spesso l'unità italiana è ridotte, nella prospettiva europeista e neoliberista, a questioni materiali, di utilità o di danno economico. E, l'idea di nazione e la condivisione dei simboli identitari sono state accantonate per timore di essere confuse con una prospettiva nazionalista, dimenticando che, come scrive Sergio Luzzatto che, nella Crisi dell’antifascismo, […] si può condividere una storia – e si può condividere una nazione, o addirittura una patria – senza per questo dover condividere delle memorie. Dico di più: una nazione, e perfino una patria hanno bisogno come del pane di memorie
antagonistiche, fondate su lacerazioni originarie, su valori identitari, su appartenenze non abdicabili né contrattabili. Luzzatto parla, dunque, di antagonismi, di Resistenza, e sostiene che solo al prezzo di grandi divisioni, di accettare l’esistenza, nel percorso storico di un popolo, di vincitori e vinti si può creare in un paese uno spirito nazionale e un senso di patria. Eppure, ho notato per esempio che, nella Costituzione, la parola «patria» compare solo due volte, di cui la seconda – mi permetto di dire – è di poco conto: nell’articolo 59 si dice che «il presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Non è poca cosa, ma «patria» qui può essere sostituito senza troppi problemi da termini come «paese» o «Italia»: il senso profondo dell’articolo sta altrove. L’altro caso, invece, è più notevole: l’articolo 52 dice che «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino» ma, come dice ancora Emilio Gentile, «è l’unica traccia residuale di una religione della patria». La Costituzione non ha altre e più decisive caratterizzazioni in senso nazionalista e patriottico. Perché, finita la guerra, con la Repubblica appena nata, i padri costituenti si tennero lontani dall’idea di patria? Una prima risposta la fornisce di nuovo Gentile, sostenendo che nonostante lo spirito patriottico che aveva animato la resistenza antifascista nella guerra di liberazione, la commistione del nazionalismo con l’ideologia totalitaria fascista ebbe come conseguenza, dopo la guerra, un rapido declino del primato etico e politico dei valori nazionali nella vita collettiva degli italiani. […] Nella nuova Italia repubblicana, il nazionalismo perse qualsiasi prestigio politico e morale […].Durante la Resistenza non erano semplicemente due partiti a scontrarsi, bensì due Italie, schierate l’una contro l’altra. “Il partigiano doveva ripudiare qualsiasi patriottismo inteso in senso nazionalistico e accettare solo un patriottismo devoto alla sorte della comunità dei popoli che combatta per una causa più alta che il meschino interesse egoistico nazionale e che subordini una politica di esclusivi interessi nazionali a quella di una cooperazione mondiale. Il partigiano era innanzi tutto il cittadino di una nuova patria universale che affermava una patria comune a tutti gli uomini, al di la delle frontiere, comune a tutte le contrapposte nazioni in conflitto, la patria della liberta." [E. Gentile, op. cit. pag 300]. Tra l’altro, la natura composita della Resistenza fatta di comunisti e di cattolici, monarchici e repubblicani, non permise ai suoi leader di elaborare un concetto di patria univoco. Il territorio comune era la lotta «contro» qualcosa prima che «per» qualcosa. L’antifascismo è sì un sentimento unificante e costituente, ma non elabora se non superficialmente un’idea di patria. Al di là dell’antifascismo, le visioni del mondo delle componenti partigiane sono distanti l’una dall’altra, incapaci di fornire un discorso unitario. Inoltre, non si può negare che per lunghi tratti della nostra storia i membri più attivi del Pci si siano sentiti prima comunisti che italiani, ossia prima membri di una comunità sovranazionale e politica piuttosto che legati a un’idea di nazione; allo stesso modo, per i cattolici è sempre venuta prima la Chiesa. Infatti, tutti oggi riconoscono i valori democratici alla base del nostro paese, ma non sempre hanno il senso di appartenenza ad una nazione. In quest’ottica, attraverso la rivalutazione dei simboli che hanno avuto un’importanza fondamentale poiché hanno unito il popolo alla nascita della nazione forse potremmo riscoprire quello che G. E. Rusconi definisce “patriottismo repubblicano”. Fin dal Risorgimento infatti l’amore della patria e l’idea di nazione sono strettamente congiunti; già Mazzini definiva la nazione quale “comunione di liberi e d’eguali, affratellati in concordia di lavori verso un unico fine” [cit. da E. Gentile, La grande Italia, Laterza, Bari - Roma 2009, pag. 20]. Partendo dalla convinzione che se i simboli servono a costruire un’identità politica ed a considerare vincolante un insieme di valori che ci identificano come appartenenti ad una stessa comunità, si capisce che ai segni esteriori del patriottismo si accompagna un consapevole senso di appartenenza ad un’unità comune. L'origine di uno dei più importanti simboli nazionali, la bandiera tricolore, risale alla fine del Settecento. Quando l'armata di Napoleone attraverso l'Italia, bandiere di foggia tricolore vennero adottate tanto dalle varie neonate repubbliche, quanto dai reparti militari che affiancavano l'esercito francese. Il tricolore italiano fu scelto come emblema unitario, dai deputati delle città di Modena e Reggio Emilia, ribellatisi al loro Duca, e da quelli delle legazioni pontificie riuniti in parlamento a Reggio Emilia nel dicembre 1796, otto mesi dopo l’arrivo di Napoleone. Il 7 Gennaio 1797 questo parlamento proclamo la repubblica Cispadana e adotto come bandiera il tricolore in tre bande orizzontali, decretando “che si rende universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori verde, bianco e rosso”. Nasce cosi il tricolore come vessillo nazionale. L’altro tricolore di riferimento era quello francese, ma quello “italiano” sostituì il blu con il verde per richiamare il colore dei vasti campi della val Padana. Ciò che i patrioti si prefiggono è di fare riemergere e portare alla luce attraverso una sorta di scavo archeologico una comunità nazionale che essi immaginano come secolarmente e oggettivamente esistente sulla base di una pluralità di elementi inconfutabili e variamente combinati che ne attestano l'antichità risalente (storia, memoria, geografia, lingua, religione, discendenza). Il significato simbolico dei colori della bandiera sarà esaltato da Carducci nel discorso tenuto a Reggio Emilia il 7 gennaio 1897, in occasione del centenario del tricolore. “Sii benedetta! Benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre, nei secoli! Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all'Etna; le nevi delle Alpi, l'aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si augusta: il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l' anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de' poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo canto alla sua bandiera ch'ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà”. Possiamo rintracciare i medesimi principi nel testo dell’inno nazionale italiano. composto nell’autunno del 1847 da Goffredo Mameli. L'immediatezza dei versi e l'impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell'unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Il ritornello fa appello all'unità del popolo per la Patria:
numerose e invasive? Lo storico Emilio Gentile, in un libro dedicato all’italianità, sostiene che alla fine del 2009, oltre l’80 per cento degli italiani ha giudicato l’Unità una cosa positiva, aggiungendo che questi dati appaiono confermati dai risultati di un sondaggio sui motivi per i quali la maggioranza degli italiani si è detta orgogliosa di essere italiana: al primo posto figurano le bellezze naturali, il patrimonio artistico e culturale, la cucina e i prodotti alimentari; seguono poi l’inno di Mameli, la bandiera nazionale, gli eventi che hanno dato origine all’Unità d’Italia e alla repubblica democratica, cioè il Risorgimento e la Resistenza, e infine la Costituzione. […].
Spesso l'unità italiana è ridotte, nella prospettiva europeista e neoliberista, a questioni materiali, di utilità o di danno economico. E, l'idea di nazione e la condivisione dei simboli identitari sono state accantonate per timore di essere confuse con una prospettiva nazionalista, dimenticando che, come scrive Sergio Luzzatto che, nella Crisi dell’antifascismo, […] si può condividere una storia – e si può condividere una nazione, o addirittura una patria – senza per questo dover condividere delle memorie. Dico di più: una nazione, e perfino una patria hanno bisogno come del pane di memorie
antagonistiche, fondate su lacerazioni originarie, su valori identitari, su appartenenze non abdicabili né contrattabili. Luzzatto parla, dunque, di antagonismi, di Resistenza, e sostiene che solo al prezzo di grandi divisioni, di accettare l’esistenza, nel percorso storico di un popolo, di vincitori e vinti si può creare in un paese uno spirito nazionale e un senso di patria. Eppure, ho notato per esempio che, nella Costituzione, la parola «patria» compare solo due volte, di cui la seconda – mi permetto di dire – è di poco conto: nell’articolo 59 si dice che «il presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». Non è poca cosa, ma «patria» qui può essere sostituito senza troppi problemi da termini come «paese» o «Italia»: il senso profondo dell’articolo sta altrove. L’altro caso, invece, è più notevole: l’articolo 52 dice che «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino» ma, come dice ancora Emilio Gentile, «è l’unica traccia residuale di una religione della patria». La Costituzione non ha altre e più decisive caratterizzazioni in senso nazionalista e patriottico. Perché, finita la guerra, con la Repubblica appena nata, i padri costituenti si tennero lontani dall’idea di patria? Una prima risposta la fornisce di nuovo Gentile, sostenendo che nonostante lo spirito patriottico che aveva animato la resistenza antifascista nella guerra di liberazione, la commistione del nazionalismo con l’ideologia totalitaria fascista ebbe come conseguenza, dopo la guerra, un rapido declino del primato etico e politico dei valori nazionali nella vita collettiva degli italiani. […] Nella nuova Italia repubblicana, il nazionalismo perse qualsiasi prestigio politico e morale […].Durante la Resistenza non erano semplicemente due partiti a scontrarsi, bensì due Italie, schierate l’una contro l’altra. “Il partigiano doveva ripudiare qualsiasi patriottismo inteso in senso nazionalistico e accettare solo un patriottismo devoto alla sorte della comunità dei popoli che combatta per una causa più alta che il meschino interesse egoistico nazionale e che subordini una politica di esclusivi interessi nazionali a quella di una cooperazione mondiale. Il partigiano era innanzi tutto il cittadino di una nuova patria universale che affermava una patria comune a tutti gli uomini, al di la delle frontiere, comune a tutte le contrapposte nazioni in conflitto, la patria della liberta." [E. Gentile, op. cit. pag 300]. Tra l’altro, la natura composita della Resistenza fatta di comunisti e di cattolici, monarchici e repubblicani, non permise ai suoi leader di elaborare un concetto di patria univoco. Il territorio comune era la lotta «contro» qualcosa prima che «per» qualcosa. L’antifascismo è sì un sentimento unificante e costituente, ma non elabora se non superficialmente un’idea di patria. Al di là dell’antifascismo, le visioni del mondo delle componenti partigiane sono distanti l’una dall’altra, incapaci di fornire un discorso unitario. Inoltre, non si può negare che per lunghi tratti della nostra storia i membri più attivi del Pci si siano sentiti prima comunisti che italiani, ossia prima membri di una comunità sovranazionale e politica piuttosto che legati a un’idea di nazione; allo stesso modo, per i cattolici è sempre venuta prima la Chiesa. Infatti, tutti oggi riconoscono i valori democratici alla base del nostro paese, ma non sempre hanno il senso di appartenenza ad una nazione. In quest’ottica, attraverso la rivalutazione dei simboli che hanno avuto un’importanza fondamentale poiché hanno unito il popolo alla nascita della nazione forse potremmo riscoprire quello che G. E. Rusconi definisce “patriottismo repubblicano”. Fin dal Risorgimento infatti l’amore della patria e l’idea di nazione sono strettamente congiunti; già Mazzini definiva la nazione quale “comunione di liberi e d’eguali, affratellati in concordia di lavori verso un unico fine” [cit. da E. Gentile, La grande Italia, Laterza, Bari - Roma 2009, pag. 20]. Partendo dalla convinzione che se i simboli servono a costruire un’identità politica ed a considerare vincolante un insieme di valori che ci identificano come appartenenti ad una stessa comunità, si capisce che ai segni esteriori del patriottismo si accompagna un consapevole senso di appartenenza ad un’unità comune. L'origine di uno dei più importanti simboli nazionali, la bandiera tricolore, risale alla fine del Settecento. Quando l'armata di Napoleone attraverso l'Italia, bandiere di foggia tricolore vennero adottate tanto dalle varie neonate repubbliche, quanto dai reparti militari che affiancavano l'esercito francese. Il tricolore italiano fu scelto come emblema unitario, dai deputati delle città di Modena e Reggio Emilia, ribellatisi al loro Duca, e da quelli delle legazioni pontificie riuniti in parlamento a Reggio Emilia nel dicembre 1796, otto mesi dopo l’arrivo di Napoleone. Il 7 Gennaio 1797 questo parlamento proclamo la repubblica Cispadana e adotto come bandiera il tricolore in tre bande orizzontali, decretando “che si rende universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori verde, bianco e rosso”. Nasce cosi il tricolore come vessillo nazionale. L’altro tricolore di riferimento era quello francese, ma quello “italiano” sostituì il blu con il verde per richiamare il colore dei vasti campi della val Padana. Ciò che i patrioti si prefiggono è di fare riemergere e portare alla luce attraverso una sorta di scavo archeologico una comunità nazionale che essi immaginano come secolarmente e oggettivamente esistente sulla base di una pluralità di elementi inconfutabili e variamente combinati che ne attestano l'antichità risalente (storia, memoria, geografia, lingua, religione, discendenza). Il significato simbolico dei colori della bandiera sarà esaltato da Carducci nel discorso tenuto a Reggio Emilia il 7 gennaio 1897, in occasione del centenario del tricolore. “Sii benedetta! Benedetta nell'immacolata origine, benedetta nella via di prove e di sventure per cui immacolata ancora procedesti, benedetta nella battaglia e nella vittoria, ora e sempre, nei secoli! Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo; ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all'Etna; le nevi delle Alpi, l'aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la patria sta e si augusta: il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l' anima nella costanza dei savi; il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù de' poeti; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo canto alla sua bandiera ch'ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà”. Possiamo rintracciare i medesimi principi nel testo dell’inno nazionale italiano. composto nell’autunno del 1847 da Goffredo Mameli. L'immediatezza dei versi e l'impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell'unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Il ritornello fa appello all'unità del popolo per la Patria:
Stringiamoci a coorte Siam pronti alla morte L'Italia chiamò.
L’Inno di Mameli riesce ad esprimere, più di ogni altra composizione risorgimentale, il sentimento di una forte aspirazione all’unita nazionale, derivante da una lunga storia comune, che spinge verso l'unione in vista del conseguimento di un fine comune. Ed e appunto chiamandoli “fratelli” che Mameli rivolge agli italiani il canto a loro dedicato. Mazziniano è il forte senso religioso che pervade la missione dei patrioti, sentita come la realizzazione di un disegno divino e il popolo è il destinatario, ma anche il protagonista di questa missione.
1849 Bandiera della Repubblica Romana (Museo del Risorgimento di Milano)
Uniamoci, amiamoci l'Unione, e l'amore Rivelano ai Popoli Le vie del Signore; Giuriamo far libero Il suolo natio:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
La condivisione di un percorso storico da cui trarre ispirazione spinge Mameli a celebrare i momenti di lotta nei secoli, quasi a rintracciare un filo ideale che li lega e che porta la storia all'inevitabile Risorgimento della Patria.
Dall'Alpi a Sicilia Dovunque e Legnano, Ogn'uom di Ferruccio Ha il core, ha la mano, I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla I Vespri suonò.
L'inno di Mameli fu un importante strumento di propaganda degli ideali del Risorgimento e di incitamento all'insurrezione nella coscienza di una nuova epoca di rigenerazione del popolo italiano.
Noi siamo da secoli Calpesti, derisi,
Noi siamo da secoli Calpesti, derisi,
Perche non siam popolo, Perche siam divisi. Raccolgaci un'unica Bandiera, una speme: Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Quando l'inno si diffuse, le autorità tentarono di censurare almeno l'ultima parte, estremamente dura con gli austriaci.
Son giunchi che piegano Le spade vendute:
Gia l'Aquila d'Austria Le penne ha perdute. Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco, Beve, col cosacco, Ma il cor le bruciò.
Il tentativo di limitarne la diffusione fallì, dopo la dichiarazione di guerra all'Austria, persino le bande militari lo suonarono senza posa, tanto che il Re fu costretto a ritirare ogni censura del testo, cosi come abrogò l'articolo dello Statuto Albertino secondo cui l'unica bandiera del regno doveva essere la coccarda azzurra. Il 23 marzo 1848, rivolgendo alle popolazioni del Lombardo Veneto il famoso proclama che annuncia la prima guerra d'indipendenza, Carlo Alberto termina con queste parole: "per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana vogliamo che le Nostre Truppe (…) portino lo Scudo di Savoia sovrapposto alla Bandiera tricolore italiana." Gli anni successivi il processo di costituzione dell'Italia fu sempre accompagnato dai due simboli: la bandiera e l'inno. Fu proprio intonando l'inno di Mameli che Garibaldi, con i Mille, intraprese la conquista dell'Italia meridionale e la riunificazione nazionale. L'annus mirabilis 1860 è l'apoteosi simbolica e rituale della «comunità nazionale ritrovata», il suggello procedurale della «nazione rivelata» e il sacramento fraterno dell'«epifania nazionale» nella rappresentazione del momento plebiscitario. Esso ha per fine di legittimare, a suffragio universale maschile la formazione del Regno unitario. Fin dal 1848, moderati e democratici condividono, infatti, una comune concezione in chiave nazionale - patriottica del voto universale, concepito come una professione pubblica e corale del sentimento nazionale dell'unificazione italiana. Le votazioni plebiscitarie sono un atto corale di affratellamento nazionale, precisamente il più solenne momento di rivelazione dell'identità italiana, culmine di un percorso della militanza patriottica. Sul modello del giuramento nazionale - patriottico, il consenso plebiscitario fu pertanto vissuto e organizzato come una cerimonia confermativa e di sanzione, sacralizzata dalla memoria delle lotte combattute e dei sacrifici compiuti. Come le consultazioni plebiscitarie hanno socializzato gli italiani, così anche l'ultima tappa del processo risorgimentale, la presa di Roma del 1870, fu celebrata da cori che lo cantavano accompagnati dagli ottoni dei bersaglieri. Roma come naturale capitale del popolo italiano per la sua storia era già stata esaltata da Mameli.
Fratelli d'Italia L'Italia s'e desta, Dell'elmo di Scipio S'e cinta la testa. Dov'e la Vittoria? Le porga la chioma,
Che schiava di Roma Iddio la creò.
Se Il 1861 ha insomma portato alla realizzazione politica un processo spirituale che era attivo negli italiani, è con la prima guerra mondiale che si compie il Risorgimento, ed è con il Fascismo che ci fu, come dichiarò Mussolini nel dicembre del 1923, una “continuità storica e ideale”. E, nel grande discorso alla Camera sui Patti Lateranensi rafforzò solennemente questa tesi. “Noi non solo non rinneghiamo il Risorgimento italiano, ma lo completiamo”. Va ricordato, tra l’altro, che uno dei simboli della rivoluzionaria Repubblica Cisalpina era il “fascio littorio”.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, però, se la bandiera italiana venne riconosciuta nel Tricolore, privato dello stemma della dinastia sabauda, l'inno non venne ufficialmente riconosciuto, De Gasperi propose di adottarlo come inno militare della Repubblica in seguito prevalse l'uso di tale inno nelle occasioni ufficiali, anche se la Costituzione non ne fa cenno. Per quanto riguarda la bandiera l’articolo 12 della nostra Costituzione riconosce che: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano, verde, bianco e rosso, a tre bande verticali e di eguali dimensioni”.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, però, se la bandiera italiana venne riconosciuta nel Tricolore, privato dello stemma della dinastia sabauda, l'inno non venne ufficialmente riconosciuto, De Gasperi propose di adottarlo come inno militare della Repubblica in seguito prevalse l'uso di tale inno nelle occasioni ufficiali, anche se la Costituzione non ne fa cenno. Per quanto riguarda la bandiera l’articolo 12 della nostra Costituzione riconosce che: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano, verde, bianco e rosso, a tre bande verticali e di eguali dimensioni”.
La bandiera viene menzionata nell’ultimo articolo dei principi fondamentali della Costituzione per due ragioni: la prima e quella di descrivere il simbolo della nostra identità nazionale, il tricolore infatti è il segno distintivo dello Stato sul piano internazionale; la seconda e quella di rendere stabile la bandiera, sottraendola a modifiche o aggiunte volute dall’una o dall’altra maggioranza per ragioni legate ai valori differenti tra i partiti che costituiscono il panorama politico italiano. Perciò, così come per il Tricolore, ritengo che sia giusto e che abbia senso introdurre nella Costituzione l'Inno nazionale.
GINO SALVI - Circolo Culturale Giorgio Almirante
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